Consegna dell’enigma al lettore ed apertura dei testi
Anticipazione, intermezzo e fine con il quale si consegna l’enigma dei fogli,delle pergamene e dei papiri ritrovati nella bisaccia di un caduto a Verdun, legati da una correggia attorcigliato su se stessa per tre volte, su cui, all’interno, si trovano incisi questi versi:
Ho raccolto nella lunga contesa
ciò che gli altri non raccolsero,
ed ho razziato
quanto gli altri non vedevano.
Mille battaglie il mio generale
mi ordinò di combattere
ma l’ultima guerra io, solitario,
starò immoto ad affrontare,
e non potrò razziare
di me stesso null’altro dell’oro
che già mi appartiene.
Il manoscritto sembra eseguito in epoche e luoghi diversi per calligrafia, materiali ed inchiostro. Non si conosce il nome del caduto. Né nazione o grado.
Sparse lettere d’alfabeti, leggibili dai fogli bruciati e lacerati.
Ricomposte in tutte le possibili soluzioni, una fra tutte è
Diadoco Antimonio.
Di lui si consegna un breve poema a prologo, come presentazione dei fogli ricomposti.
Prologo
Apocrifo delle Terribili e del loro figlio Eros, il festante senza tempo.
Il seme protende il suo viso verso il sole,
nella sempre sorridente attesa
dell’alba e del tramonto.
Scomparire tutti si deve,
tra le zolle inerpicate
sopra massi galleggianti sul magma,
o tra gli infiniti squarci tra le ere
che le Moire tessono,
come ornamento elegante delle loro vesti,
quando richiamano gli dei al loro banchetto,
richiedendo alle loro labbra il racconto
delle loro sempre nuove vite, e corse, ed amori.
Là i mortali immortali, quando schiudono
per un istante
le palpebre di Eros, colmo
del latte poppato dalle rosee mammelle,
curve di tenebra,
raccolgono l’eterno rinnovarsi delle messi,
ora canto di sassi e di dune,
ora arpeggio di vento e di ali,
ora schiudersi splendido d’un corpo.
Altri,
sulle ali di farfalla,
librano oltre il pensiero le forme
del tempo e dello spazio,
liquidi suggelli per labbra balbettanti,
segretamente recandosi al fianco delle Moire
per sussurrare alle Terribili Madri,
d’ogni fili tessitrici,
d’aver scorto il bandolo,
letto la trama e l’ordito,
odorato le essenze dei colori,
e carpito il segreto,
chiuso ad ogni sguardo sospeso al loro filo,
come ragno attonito
mai satollo di farfalle,
in ultimo, cadavere
al centro al proprio filo.
Poi, tacendo come un seme
tace il proprio inverno
all’interno della terra, essi,
da se stessi benedetti,
le redini dell’auriga degli immortali
cinte ai fianchi
per il loro vagabondare,
vivono attendo al proprio lavoro,
come vena di metallo nella terra,
a loro sorella ed amante,
e del proprio cangiamento
stendono foglie al sole, e segrete radici all’acqua,
accarezzate dal vento che da ogni landa
trascina il respiro dei viventi,
morbide le umide radici scaldate
dal dorso infuocato del cuore terrigno,
tornando, di tempo in tempo,
nelle lande ove le ossa
scheggiate d’ogni respiro vibrano,
calcinate, arse,
scricchiolanti al nuovo peso del vecchio passo,
l’incedere fatale
che le Segrete e Terribili,
mormorando lo stupore
udito all’orecchio
durante il banchetto con gli Immortali,
nuovamente muovono
tendendo il filo, le forbici affilate
sulle ossa distese all’arsura,
del proprio giro d’arcolaio.
Apertura prima
Solo la voce si accalca sulle tribune del ricordo. Echi di esistenze nel mattatoio dell’arena, mentre la naomachia rende avvezza alla parodia anche i compagni di Giasone. La luce si smorza nel navigare sopra l’onda che si trasforma in tempesta. Ma non qui. Qui, i morituri si contendono l’entusiasmo della folla, agitando gomene trasformate in torce.
Il retiarius, avvolgendo la rete attorno all’antagonista sconfitto, urla il terrore dell’onda che avanza e sommerge. L’isola nel centro è travolta, ed il suo trionfo è la beffa d’un senato indolente e già stanco dello spettacolo. Arconti feroci s’annoiano nei panni sacrosanti. Il sangue si stempera nei flutti, ed ancora, ed ancora, scomparendo tra le crepe del terreno riarso. mentre le vele, inutili nell’arena, si gonfiano dei respiri dei morenti.
Voci come echi si accalcano sulle tribune, dimentichi che polvere ed ombra non lasciano tracce.
Ekate-Eracles
1
Il cielo tende la sua pelle e suona,
questa sera. Gocce e foglie, dalle trecce
degli arbusti, sferzano il vento,
sfere ed oblique losanghe di luci danzano,
agili e zoppe,
pennellando sui muri l’ intrico della vite,
ombre nell’ombra.
Dalla mia finestra osservo, la sigaretta
intenta a rodermi l’angolo dell’occhio
con un filo di fumo.
Solo il vetro mi separa dalla tempesta
di gocce e di rumori,
fragile e lieve come il soffio
che entra nel seme e scorre in fiume,
e rigagnolo,
e nuvola,
e speranza di mareggiata,
e risacca malinconica,
torrente di pochi anni
e acqua lenta di pianura,
e mi abbandona, infine, fuggendo,
lasciandomi freddo, stupito,
inane, capace solamente
di disfarmi in pozzanghere.
Questa notte la pelle del cielo
tende il suo richiamo
e non so se per poter cavalcare
finalmente a ritroso
i cavalli della pioggia,
o per sparire come carsica
lacrima in pochi istanti.
Il buio, ormai, cancella le ombre
e le dita della pioggia
sono il battito nascosto di chi scorre
accendendo e spegnendo
riverberi dinanzi
la polita lastra di bronzo
del tempo.
2
A schiere alate,
planando
sulle mescite di lava che le crepe,
nella roccia,
offrono alle labbra
riarse
del viaggiatore,
angeli dalle piume di nero corvo
compassano angoli e rotazioni, sull’asse
intorno a cui,
non vista,
condensa
la rugiada dell’orizzonte.
Fu mattino un tempo, ed ora
nessun movimento del cielo
indica quale istante
stia falciando quale vita,
ma continua
la vecchia puttana col saio tarlato,
sudario consumato dalle radici,
a mulinare la luna affilata
per mietere lo stelo
che, paghi di se stessi,
dei affamati dal viso stravolto
piantarono nel cuore dei viventi.
Mi appoggio alla balaustra,
il freddo della pietra
è orba del fuoco,
ed attendo la sera che non giunge.
E’ qui
e mai declinato ha il capo
nella conca fredda del mattino,
e neppure
l’alto stupore del meriggio
ha mai abbandonato la sedia
della sua indolenza.
E’ qui, ed il suo ginocchio
non piega movimento
per salire o per discendere.
Con l’ultimo filo di fumo
abbarbicato sulle mie rughe
attendo che l’ala corvina
d’un angelo,
dagli occhi senza palpebre,
mi sussurri il suo nome
prima di trascinarmi
a misurare secoli e passaggi di bruchi nella terra
dall’alto della più alta pietra
che ventre di Madre
ebbe a far nascere.
3
Lacere,
le vele di Enea hanno garrito
tornando a ritroso lungo il fiume
tracciato dai cavalli della notte.
Sfilando dalle viscere
della tre volte infelice Didone
la spada, che comandò a se stessa
d’essere crudele,
ho tagliato questa notte
il tessuto umido di vento,
e ne ho fatto una veste
con cui passeggiare nel giardini pensili
di Babilonia, l’eterna mai stata.
Computo con lo stilo,
osso che non brucia e non consuma nel tempo,
lo scorrere verso, ed il già fluito,
e di profili di attori reco memoria,
cercando nell’imo del loro sguardo
il perché del mio navigare.
Babilonia, accogli ancora una volta
il galoppo dei cavalli,
la brace che presi dal bivacco degli dei
per farne dono ingeneroso a me stesso,
quando cavalcavo il respiro
privo della luce che brilla nella notte.
Accogli ancora una volta il sospiro del coito
sulle vele lacere e sinuose,
dismesse le sembianze delle vesti,
ed infine, sacro frutto della terra, sii seme
e stagione al contempo,
ed innalzato sullo ziggurath
sii pianta carica di frutti, su cui
salire un poco ancora
per stringere al petto il fuoco delle stelle.
4
Cintura di Ekate, viso
rivolto alle stanze bipatenti
verso i cammini del giorno e della notte, Musa
che mai fosti mortale, e tuttavia
in ogni fossa è scavata la nicchia
del tuo tabernacolo,
acqua lustrale e pioggia sull’Oceano,
nel cammino sopra gli steli insanguinati,
a fianco della testa mozzata
del bambino che profetizza ogni destino,
lugubre tarlo posato su marmo ed alabastro,
tu non tendi mano e respiro per donare
lugubri seguaci.
Adorna delle stelle che non periscono,
giaci con il nostro pensiero, e guida
la trottola scossa dai Silenti.
5
Tu, che dalla corsa sfrenata
hai tratto la polla dell’acqua che mai viene meno,
Tu, che nel volo degli uccelli
hai guidato l’ala sino alle fonti delle parole primordiali,
Tu, che hai sussurrato lungo l’orizzonte
tra mare e cielo
le vocali che scavano le grotte
ove venti
e falene
riposano,
prima di trasmutare
nel falco che scheggia la pietra
e nell’aquila dall’occhio
forgiato dal Sole,
Tu, fallo eretto degli dei, divino
folle abitatore della silente saggezza,
Pan, saldo vincastro tra le mani di chi non teme
lo stare ed il partire,
rendi menade l’arida anima dell’agrimensore
e donagli primavera feconda, e dossi assolati
su cui maturare,
nell’attesa di schiudere la propria polpa
nel dolce fermentare dell’autunno.
6
E’ sulle rotte che flettono l’arco
verso il cielo e l’abisso
che, lungo la spina dorsale degli dei,
al giorno ed alla notte aprono e serrano
gli occhi, ed agli immortali dormienti,
il respiro di coloro
che indossano polvere ed ombra
per il lancio d’un dado.
Giunti al cardine,
spingere il cancello e camminare
tra le foglie autunnali,
sino a nuovamente assopirsi e germinare,
per svegliarsi ancora dinanzi,
e premerne il peso,
spinti da speranza e timore, antiche dominatrici,
o, forse, scardinarne l’incastro,
piegare le sbarre e gli arabeschi di decoro
e farne spartito, e note, e canto,
e con esso riempire vele, ali e narici.
Polvere ed ombra, grevi,
sul litorale sgretolato dalla secca onda del mare,
come biche d’insetti nel riverbero
della calura agostana, sul campo irto di schiocchi
e steli falciati, in chitinoso silenzio,
stanno.
7
Avanza, specchio d’ossidiana in cui s’immergono
i flutti d’Oceano e di Urano, avanza,
pupilla senza palpebra,
dimora di distanza aquilina,
avanza, vessillo d’impero
tra mangiatori di fango.
Ho atteso l’apparir dell’insegna,
e come semplice panno
l’ho visto rivestire afflizioni e gioie,
senza capire.
Ora distenditi come vela
e, cinta gemella del periplo del sole,
ruggito custode di fiumi disseccati,
fammi nascere come impronta
del tuo passo sulle onde
che cavalcano la terra, o,
come ala involata oltre il cielo,
o come fuoco,
e sfiorerò il liquido tramonto,
nella gioia
del vermiglio stemperarsi del confine!
Raggiunto avrò la terra,
e dalla corteccia d’albero,
e dai cespugli occhieggianti
il sempiterno nuovo verde,
torneranno a prender vita
il fauno che corre
e la driade che tesse il manto del vento
tra i capelli gonfi di distanze.