Un giorno, quando
busserai alla mia porta,
ed insipiente e stanco
ti farò entrare,
non avrò paura che la tua mano
adunca e senza pelle
si annodi alla mia gola,
strappandomi il respiro,
o che, con unghie sporche
del fango di sepolture
travolte dalla piena,
strappi la luce dal mio cuore
gettandomi per terra come un vestito
ormai dismesso e stazzonato.
Suonerai, o busserai,
o magari di soppiatto
entrerai dalla serratura, sussurrando
le atroci parole che ti mozzano
il respiro, mentre giaci nel letto
prigioniero del sonno, od ancora
spaccherai il chiavistello, ed irromperai
con passo risoluto, smembrandomi
per sottrarmi lo sterno,
e farne gabbia
per un nuovo uccello prigioniero.
Giungerai, e toccherai il legno
della mia porta, ridacchiando
se dinanzi a te si parerà
un uomo impacciato e confuso
circa l’etichetta da seguire
in simili circostanze.
Forse troverai un uomo imbarazzato,
dallo sguardo dubbioso
e dai modi affettati, come si usa
con la visita
inaspettata
d’un parente
mai visto, se non in foto.
O forse
le mie mani palperanno le tue forme,
accarezzando i seni senza latte
e la secca vagina, cercando
di trascinarti sulle lenzuola,
e lì, proverò a smuovere
la tua indifferenza, fredda come una lama.
Quando verrai, avrò comunque
ancora del pane da spezzare, ed un ultimo
sorso di vino,
da bere e da assaporare.
Non essere scortese, prima
che la tua lama recida il mio filo,
permettimi di brindare
e salutare il mio nome
mentre diventa nebbia, e poi nulla.