Brano tratto dal romanzo urban fantasy ” Punctum solis “, inedito

Torino, oggi

Una brezza sussurrava piena degli aromi della primavera, ed il primo quarto di luna, nonostante la serata fosse stata coperta per un largo tratto, riusciva finalmente ad illuminare la notte. Sulla panchina del giardinetto, un uomo vestito di scuro, con un lungo impermeabile fuori stagione, tutto spiegazzato, era ben visibile nel cerchio di luce gialla del lampione stile liberty, vicino al laghetto delle anatre ed alla fontanella di pietra.

L’uomo, una sigaretta accesa dietro l’altra, sembrava totalmente assorto dalla lettura di un libro. Scena singolare a vedersi, visto che la luminosità del lampione, pur sufficiente alla bisogna per chi avesse dovuto attraversare il parco, orientarsi o sedersi e chiacchierare con un amico, non era comunque il mezzo migliore per affrontare il corpo 11 dello stampato tradizionale. Era lì da almeno un paio d’ore, indifferente agli sguardi interrogativi dei pochi passanti, sempre più radi, ed alle profferte delle due prostitute che si spartivano la zona a monte.

L’uomo ebbe un accesso di tosse, quindi si alzò per andare alla fontanella e sciacquarsi un poco l’ugola irritata dalle continue sigarette. Mise le mani a coppa, sotto il rubinetto in bronzo che spuntava da quello che pretendeva essere un putto sorridente, e che invece gli pareva in tutto e per tutto il viso di un ebete ghignante, quindi affondò le mani in tasca, per pescare accendino e Camel.

Un passo, da dietro, fece scricchiolare la ghiaia. Era vicino, a nemmeno un metro dalla sua schiena.

Lui non si voltò né interruppe la ricerca del pacchetto di sigarette, la cui presenza era ora vagliata nella tasca interna dell’impermeabile color cuoio.

Il rumore metallico annunciò all’accanito fumatore che qualcuno, alle sue spalle, aveva fatto scattare un meccanismo, probabilmente a molla e, altrettanto probabilmente, di un coltello.

“Ehi, stronzo! Vedi di non fare l’idiota e di darmi tutto quello che hai in tasca, o ti infilzo il collo tra vertebra e vertebra in un attimo!” Una voce rauca e senza tentennamenti scandì con durezza questa frase, mentre l’aggressore fece sentire il freddo aguzzo della punta della lama premendo sino a far uscire un piccolo rivolo di sangue. Una mano d’acciaio, fredda e secca, bloccò in un istante la fronte del bevitore alla fontanella, tirandola all’indietro e ponendo il malcapitato nella impossibilità di potersi ribellare senza causare a se stesso danni gravissimi.

L’uomo dal soprabito stazzonato sembrò rimanere immobile per una decina di secondi, quindi, in maniera quasi fulminea, inaspettata per il suo aspetto piuttosto indifeso e male in arnese, spinse contemporaneamente l’avambraccio destro dell’uomo, nella cui appendice era stretta la lama, e ruotò di lato, imprimendo una rotazione parziale al corpo dell’assalitore, e mettendo fuori pericolo, almeno per qualche istante, il suo collo. Uno sbrego si era aperto sulla sua pelle, e la ferita aveva iniziato a colar abbondante sangue, ma ora vi era mezzo metro tra lui e la punta della lama.

L’uomo col soprabito prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, ed iniziò a tamponarsi la ferita, sorridendo all’indirizzo dell’assalitore, rimasto stupito dalla reazione agile ed inaspettata della vittima.

“Ci tieni alla tua anima? O meglio, a quell’accozzaglia di vagiti ed urli agonici che hanno costituito il peregrinare nei secoli della quintessenza indistruttibile che voi ilici, io dico inopinatamente, definite anima? Sai che la tua è ridotta ad uno stronzo di chiuahua? Rende proprio sgomenti vedere come una cosa preziosa, quale è il punctum solis, sia divenuto nelle tue mani un escremento buono solo per impiastrare una suola, lasciatelo dire…forse non hai bisogno dei miei soldi…hai bisogno di due sberloni ben dati che ti sveglino dal torpore tamasico…ma non so se faccio bene…alcune volte aiutare è sbagliato!”- l’uomo col soprabito sciorinò le sue affermazioni con lo stesso tono di voce con cui un negoziante legge ad alta voce gli ingredienti scritti sull’etichetta di una scatola, per informare l’eventuale acquirente della presenza, o meno, di allergeni.

“ Co…cosa? Di che cazzo parli, uomo? Credi forse di fottermi con queste stronzate? Io ti…”

“ No, tu non farai nulla né ora né domani o tra un mese. Anzi, vedi di versare la rata della polizza assicurativa della casa e del garage, che è in scadenza, o per te e quella poveraccia che ti sta assieme non ci sarà manco la possibilità di un pasto caldo e di un pezzo di tetto sopra la testa. Tieni, ti smazzo un cento. Pagaci la rata annuale, non si sa mai. Magari la sfiga vuole che un corto ti fulmini l’impianto e ti mandi a fuoco tutta la porcheria che tieni lì dentro, con il laboratorio che ci hai raffazzonato dentro e la macchina scassata che sta ancora attaccata con lo sputo, e solo perché sta ferma, danneggiando quei raccoglitori di cianfrusaglie e bidoni vecchie a quattro ruote che i tuoi coinquilini di palazzo definiscono garage…ma non ti converrebbe impegnarti a trovare un vero lavoro e lasciar perder gli assalti occasionali a sconosciuti? E ti regalo pure la mascherina che ho in tasca, è nuova, non la uso…tanto a me il covid non fa altro che provocare un po’ di raucedine, e qualche starnuto…se continui ad andare in giro senza protezioni, bello mio…ma non sai che puoi fotterti i polmoni per quattro gocce di saliva ? ”

L’assalitore aveva ascoltato quel panegirico senza fiatare, la mano col coltello ormai tenuta all’altezza delle ginocchia. Sembrava una statua di sale, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. All’uomo col pastrano quella smorfia di stupore sembrava idiota almeno quanto la faccia del putto con in bocca il rubinetto, e lo disse senza mezzi termini.

L’uomo col coltello balbettò qualcosa, poi, forse spinto dalla frustrazione o dalla piega inaspettata che avevano preso gli eventi, diede di lama all’improvviso, rompendo la distanza con un salto e tirando un fendente ed una stoccata. Questa, dritta al cuore, penetrò il pastrano ed il torace dell’anziano stazzonato, il quale, in un silenzio di tomba, crollò sulle proprie gambe, come una marionetta a cui avessero tagliato i fili.

L’aggressore, ansimando e guardandosi freneticamente attorno, si avvicinò al corpo esanime, infilando in ogni tasca le proprie mani per cercare soldi.

“Cazzo, 4400 euro in contanti, nessun bancomat, un bel po’ di sterline e dollari…e questi che sono? Che cazzo di banconote sono? Rubli? E quest’altra cartaccia? Ringitt? Malaysia? Naaaa, mi beccano subito se cerco di cambiare, e poi non valgon nulla, o quasi…lasciamo stare. E quest’altra cosa…cos’è? “ chiese a mezza voce l’assassino, mentre i suoi occhi continuavano a roteare d’attorno per spiare nel buio l’eventuale presenza di qualche tiratardi nel parco.

L’uomo si mise sotto il lampione, e porse alla sua luce, arrotolato nella sua mano, una catena di un metallo che non sapeva definire, ma che non sembrava prezioso, ed un ciondolo dall’aspetto piuttosto inusuale. Così ad occhio e croce, sotto quella luce giallastra e con l’adrenalina che pompava nelle arterie, quel coso sembrava essere un viso mostruoso, deforme, un ghigno beffardo, al di sotto del quale vi era un torace largo e due gambe corte e stortagnate; due grossi coltelli affiancavano il torace, mentre una specie di geroglifico era stampigliato sul fondo del medaglione. Sembrava piuttosto pesante, ed antico, per cui andò a finire nel fondo della tasca, assieme alle banconote e ad un anello che il vecchio aveva nel medio destro. Un rubino, o almeno così pareva, incastonato in una fascia d’oro, e circondato da una fine scritta, illeggibile alla luce giallastra del lampione.

Senza star su a pensarci, l’assalitore si infilò anche quel ciondolo in tasca, sfilando dal dito indice dell’uomo quello che sembrava un altro anello d’oro con una pietra incastonata, forse un topazio, ad una prima, frettolosa considerazione. Una mascherina chirurgica, ancora incellophanata, frusciò tra le sue mani e venne quindi dipanata, ed indossata. Era meglio coprirsi la faccia, la Polizia tendeva a fermare i passanti sprovvisti di sistemi di protezione individuale. Ed in quel periodo di quarantena, peraltro, di persone in giro ve ne erano davvero poche.

Con passo leggero, controllando ancora che nessuno stesse a spiarlo, l’uomo si dileguò nelle ombre, sparendo.

“ Ma di che cazzo mi stavi parlando, povero demente? Della mia anima che è peggio d’uno stronzo…di chiuahua? Ora la tua non c’è più, è questa l’unica verità…e poi…ma come cazzo faceva a sapere del mio laboratorio e della rata dell’assicurazione? Che faceva di mestiere, l’indovino? E non poteva prevedere anche la coltellata che gli stavo per tirare? Bah, comunque è meglio che me la fili a casa passando per gli argini…non vorrei mai che, a qualche pattuglia, venisse in mente di fermarmi a quest’ora della sera…ci voleva il lockdown e ‘sta peste per inghirbarci ancora peggio, noi, poveracci di strada…pochi passanti da spolpare e troppe divise in giro…e sempre lì a far storie, a chiederti dove vai e perché, e tu a mostrare che stai andando a comprare una medicina, e sempre lì a mostrare i documenti, come se fossimo alla frontiera…ora che ci penso, mica ce li aveva i documenti, quello sciroccato…”. L’ombra si fuse definitivamente con l’odore di fanghiglia e sporco che limacciava lungo la parte bassa degli argini, strisciando verso la salita da cui avrebbe potuto, con un poco d’impegno e di fatica, arrampicarsi per la massicciata del muro e raggiungere il retro del suo palazzo, da dove sarebbe potuto entrare senza esser visto da nessuno. Quel vecchio palazzo, con i suoi viavai di abitanti, abusivi o meno, gli sfratti, le occupazioni, le urla, le risse, le puttane sul ballatoio a dieci euro a pompino, era in stallo da quando le famiglie avevano partecipato ad una diretta giornalistica, e sciorinato chi una nefrosi del marito, chi uno sfratto ed otto figli, chi la disoccupazione dell’intero nucleo. Grazie a quella diretta televisiva, ed a diversi sit in davanti al Municipio, qualcosa si era all’inizio mosso per quella zona ormai degradata della città, e gli sfratti esecutivi erano stati bloccati, qualche fornitura riallacciata, un paio di famiglie prese in carico da associazioni di volontariato. Ma gli otto palazzi di quell’isolato erano rimasti, nel complesso, sul Libro della Morte di assessori e politici, e chi poteva sfangarla in qualche modo la sfangava, magari allacciandosi illegalmente alla rete elettrica, vendendo qualche dose al Valentino, prostituendosi o lavorando in nero.

L’androne del suo palazzo, quello sì, aveva rilanciato gli affari, con Rosina e Yvette che, dopo quel servizio di denuncia, avevano visto triplicare il loro giro, normalmente gestiti tra la camera di sgombero per gli arnesi delle pulizie, stabilmente occupato da Rosina e dal suo letto di gommapiuma, e la cantina con la porta gialla, ove Yvette viveva e si dava per pochi euro. La sua bellezza dalla carnagione scura le fruttava tra i dieci ed i quindici euro, e sì, anche in quel contesto così squallido, rabberciato, lei era molto brava, tutti lo dicevano. Solo, quel viso senza sorriso e quella rabbia soffocata e percepita a pelle, anche dalle persone meno empatiche e più frettolose, faceva sì che i clienti, spesso, preferissero Rosina, sguaiata, trascurata, sciatta, e con una dentatura discutibile, a lei, algida e lontana. Anche per loro, comunque, lavorare era diventato difficile, in quel mondo improvvisamente medicalizzato. Pochi clienti, lunghe code alla caritas, qualche sveltina more canino, con mascherine e gel sulle mani…magari senza profilattico, ma il martellamento dei contagi era stato così pressante che, almeno in quello stabile, era stato tacitamente concordato tra le due signorine lì esercitanti l’adozione delle linee guida ufficiali.

Una cosa era chiara, in effetti. Tra i poveracci del quartiere, il covid aveva già iniziato a riscuotere pegno, e i male in arnese, i vecchi con la pensionaccia sociale, i fricchettoni residuati degli anni ‘70, beh…erano già entrati nelle statistiche della sanità piemontese, chi scaldando ancora un letto in qualche terapia intensiva, chi, invece, volteggiando come cenere e fumo…che periodo folle ed inaspettato era quello…la morte cavalcava starnuti e respiri, e non si poteva neppure fare una buona bevuta tra amici senza correre il rischio di lasciarci le piume senza tanti complimenti.

Quella sera, comunque, il portone sembrava sgombro, e il neo omicida, ancora gonfio d’adrenalina, avendo trovato il retro del palazzo presidiato dalla combriccola dei soliti ubriachi, seduti sul proprio piscio e su logori tappetini di macchine, non ebbe difficoltà ad entrare, non visto, nell’androne, e salire a passi rapidi su per le scale, sino al terzo piano, dove al 9, dietro la porta di tamburato ammaccato e scheggiato, la sua compagna stava sentendo ad alto volume una puntata di un talk show. La voce della conduttrice, roca e quasi baritonale, rimbombava sin da fuori il buco della toppa, tanto alta Elisa, questo era il nome della sua donna, era abituata ormai a sentire la tv.

Spalancò la porta, e la voce della De Filippi lo accolse come un mastino sbucato dal buio, e con una gran voglia di molare i propri denti sulle tibie del primo malcapitato.

– Elisa, son tornato! Abbassa, cazzo, che stai assordando anche i vicini! Ti sta sentendo persino l’haitiana che fa i pompini in cantina, e che diamine!-

– Vaffanculo, te e quella troia. Le avrai smazzato i soldi della bolletta, ti conosco, porco d’un porco! Boja faus, sono una torinese purosangue e mi tocca vivere con negri ed albanesi ubriachi, e con un terrone incapace di portare un piatto di minestra a casa!- urlò di rimando Elisa, senza abbassare di una tacca il volume della tv.

L’uomo entrò di corsa nella stanza, irritato da quel comportamento sguaiato e stupido della sua compagna. Prendersela così tanto per un servizietto pagato pochi euro, e tanti mesi fa, e per di più dopo mesi che lei, di seguito, rancorosamente, gli aveva dato sempre buca, ora per un mal di testa, ora per un litigio, ora, infine, perché non riusciva a trovare un lavoro stabile, e doveva accontentarsi di qualche riparazione raffazzonata in quel pezzo di garage che aveva ereditato, unico suo bene e possedimento, dallo zio, assieme ad una vetusta, marcescente seicento Fiat, in promessa di vendita per qualche centinaio di euro da parte di un collezionista. Beh, lo sapeva il motivo. Erano le benzodiazepine e il vinaccio in cartone. Assieme, la rendevano quel coso istupidito e raggomitolato tra le pieghe di lardo ed il maglione di paille, e con una coperta a coprire quei piedi paonazzi, scheletrici, e quell’addome ormai gonfio per il troppo bere. Erano le benzodiazepine, ed anche quella fottuta depressione che si era scavata una ruga inequivocabile sotto le labbra un tempo sorridenti, persino felici. Era un bel viso, dieci anni fa, quando entrambi avevano un lavoro, erano più giovani, e potevano permettersi persino il lusso di qualche sogno banale e borghese, come una vacanza all’estero, o un mutuo per la casa. Poi, la crisi, i licenziamenti, i lavori in cooperative e gli LSU, i progetti lavorativi a quattrocento euro al mese, mentre l’affitto te ne porta via 500, e il fondo della bottiglia visto sempre più in anticipo, prima ogni due giorni, poi la sera, quindi, qualche volte, ancor prima che le ombre iniziassero ad inscurire il cielo pedemontano.

L’odore stantio del cavolo e delle patatine fritte abitava ormai come un coinquilino quelle mura visitate giorno e notte dalle starlette della tv, e più loro apparivano in forma e splendenti, più i capelli di Elisa divenivano unti e disordinati. La vita era una merda, e questo Enrico lo aveva sempre saputo, ma in quel momento, con il coltello in tasca ancora sporco di sangue, e l’adrenalina scemata all’improvviso, gli appariva un mostro maligno, un qualcosa che ti ghermisce, all’improvviso, da una beata non esistenza, e ti scaglia, non sai come, non sai perché, dentro un Luna Park idiota, assurdo, senza senso, ove pochi si divertono, mentre tu sei lì, a scivolare e cercare di rimanere con un piede solo, e la caviglia dolente, sulla rotaia sospesa sopra un abisso, dove sei costretto ad esibirti in equilibrismi per chissà quale sadico motivo, mentre il pubblico tifa per un tuo schianto, e ti bersaglia di insulti e pomodori.

Enrico si buttò sul divano sgangherato, e prese il telecomando, abbassando il volume ad un livello accettabile. Quindi, ricacciando quasi con orrore quell’idea assurda, improvvisa, nata tra le dita ed i pensieri, quella di afferrare velocemente la lama insanguinata, e porre fine alla vita di entrambi, con un gesto risoluto, un fendente alla gola, cercò le mani di lei, le strinse, guardando in quegli occhi arrossati dalle ore di tv e dall’alcool.

Represse una lacrima. Elisa, guardandolo infastidita, rimase in silenzio, aspettando che qualcosa accadesse. Era abituata agli spot che interrompevano le trasmissioni, e quindi se ne stava lì, in attesa che qualcuno, o qualcosa, facesse la sua comparsa.

– Ho fatto un affare. Un business. Posso pagare le bollette, ed anche la rata dell’assicurazione. Meno male che me lo hanno ricordato. E comprare qualcosa per noi. Ah, ti ho anche preso un piccolo regalo. Un ciondolo con la collanina. Credo proprio che sia un monile di vero argento, non soltanto semplicemente placcato come le baracche da due soldi. E’…mmmmh…etnico….viene…bah, è stato uno zingaro a darmela, in cambio di un vecchio favore.- E, detto questo, le passo tra le mani quel ciondolo rinvenuto nel pastrano del vecchio.

Una faccia quasi deforme, ghignante, brillava debolmente alla luce del neon dietro il divano, nella mano sinistra di Elisa.

– Ma chi è ‘sto mostro?! E’ più brutto di tuo padre, e ha pure la lingua fuori, proprio come te quando guardi la Yvette…regalala alla tua troia, va’, che questo schifo non lo voglio…anzi, cambialo al Balùn, che ci possiamo rimediare mezza stecca di sigarette, o un phon nuovo, che ho deciso di lavarmi i capelli…!- Elisa gettò il ciondolo addosso ad Enrico, tornata scorbutica.

– Ti ho detto che ho fatto un affare. Un ottimo affare. Ora scendo dal cinese e ci compriamo del pollo, e pure gli involtini e il riso alla cantonese, e la birra..e poi passo dal market di Amin per una bottiglia di rhum decente…che ne dici?-

Elisa si illuminò all’improvviso. Non ci poteva credere, ma era proprio vero. Il suo uomo stava mostrando un rotolo di banconote, un gran bel rotolo. Si poteva vivere alla grande, per un po’. Prese dalle sue mani il ciondolo, e se lo mise al collo.

– Certo che è più brutto di quel porco di tuo padre, quel gran maiale…e tu hai preso da lui, si sa…ma grazie comunque per il pensiero. Cosa rappresenta?-

– Quel gran porco di mio padre, ovviamente ahahaha…che poi non ti spiaceva così tanto farti palpare da lui, ahaha…siete tutte uguali, voi donne…fate tanto le schizzinose, e poi, se non vi si considera…-

Un bussare ritmico, quasi allegro, sul tamburato della porta, interruppe le prime schermaglie di un petting esteticamente discutibile. Erano due ravatti male in arnese, e le tette di Elisa, tirate fuori dal pigiama slabbrato, ricordavano più una lonza di suino buttata sullo strofinaccio da bottega di un macellaio, che i seni delle starlette televisive, tutte gonfie e sode. Enrico, del resto, era secco e con una chierica piazzata nel bel mezzo di capelli ispidi come una spazzola, ed una pancia da bevitore di birra gonfiava la camicia dando l’idea di una refurtiva nascosta da un taccheggiatore maldestro.

Il bussare divenne quasi un assolo ritmico, degno di Tullio De Piscopo. Quasi piacevole a sentirsi. Ma chi cazzo poteva essere a rompere i coglioni in quella maniera, e proprio in quel momento, dopo mesi di rancorosi dinieghi da parte della sua compagna? Di certo non era la Polizia…il loro era un bussare imperioso, accompagnato da frasi urlate, e da gran calcioni sulla porta. Enrico si scagliò verso l’entrata, urlando con le labbra quasi incollate al tamburato di smettere.

Da dietro, qualcuno ritmava ora i toc toc quasi ad imitare la Primavera di Vivaldi. Una voce, da dietro il tamburato, accompagnava la melodia con un lieto, trillante la lalà lalalalalaaaaà.

Enrico spalancò la porta, il sangue al cervello e la mano in tasca, sulla lama. Lo chiamavano Paglia non per nulla, tra gli amici. Faceva subito fumo alla prima scintilla, e non sapeva frenarsi quasi mai. Quasi. Con Elisa, chissà perché, era stato diverso. Sempre.

Gli occhi di Enrico videro il primo piano di quattro nocche ossute, e poi un’esplosione di colori. Quindi, il buio ed il freddo del pavimento.

– Spiacente di turbare il vostro ritrovato idillio, ma sono venuto a riprendermi qualcosa che mi appartiene. –

Capitolo tratto dal romanzo “L’educazione di una masca” in fase di seconda stesura

Monferrato, oggi

Quella figura allampanata, ed imponente al contempo, era un ossimoro vivente, se vivente si poteva definire. Irradiava quella luce densa di cui non si poteva fare a meno di osservare affascinati le concrezioni che si formavano attorno, come olio iridescente sull’acqua. La corsia di quella sorta di autobus anni ‘50 esprimeva, concentrate in pochi metri, profondità e geometrie impossibili, prendendo le parvenze di un quadro di Escher o di Perilli. Lo sguardo avanzava allungando il campo visivo quasi come in una visione a tunnel, eppure, camminando avanti ed indietro lungo quel corridoio sghembo, il passo misurava un numero ragionevole di percorso, tuttavia il fondo si curvava, e pareva estendersi quasi all’infinito, come se si spostasse con lo sguardo. Gli occupanti dei sedili parevano dei fantocci dagli occhi spenti e vivi al contempo, e le loro orbite sembravano risucchiare ogni luminosità, plasmando la luce con la consistenza dell’ombra. Indifferenti l’uno all’altro, pronunciavano frasi sussurrate senza labbra, e sembravano voler comunicare all’uomo qualcosa di incomprensibile. Il viso di quella figura allampanata era una pura tenebra violacea, vagamente iridescente nella sua insondabile oscurità. Un collo affusolato sosteneva quel capo oblungo, entro cui due oceani in movimento, simili a un maremoto notturno, sciabordavano in innumerevoli tremori di onde ora blu elettrico, ora ciano. L’intera scena sembrava irraggiarsi dal centro del petto di quell’essere, avvolto in una tunica, facendo apparire il tutto come la proiezione di un diorama metafisico. Le maniche, che nascondevano quasi per intero le mani, erano lunghissime e amplissime, quasi come quelle delle casacche dei mandarini. La figura era al centro di quella visione, pur essendo plasticamente appoggiata ad un sedile verso il fondo di quell’improbabile carrozza tranviaria. Sembrava quasi una persona che stesse aspettando un amico ad un appuntamento, ma l’atmosfera che si respirava non era per nulla amichevole. Ad essere sinceri non vi era ostilità, ma la percezione era quella che qualcosa stesse per accadere di inusitato, strano, sicuramente al di fuori e al di là della comune esperienza. L’uomo si avvicinò titubante a quella figura, avendo inteso dal movimento delle mani come un cenno di invito; infatti l’essere inizio subito a parlargli con voce assolutamente normale, quasi piacevole, con il tono di chi sta parlando di quello che avrebbe fatto di lì a poco, prima di recarsi a cena, al bar, per un caffè e una partita a carte.

” Io sono l’ipostasi della Solitudine, e il mio corpo è il pianeta da voi chiamato Nettuno. Le persone che vedi sedute in questa carrozza sono coloro che hanno seguito l’influenza propria della mia natura, partecipando a tal punto di essa da divenirne dominati, ed assorbiti. Loro vivono ora nella solitudine che scava canyon tra i secondi e tra le parole, e si nutrono ed abbeverano del silenzio del cuore della notte. Questa immagine che tu vedi è quello che tu puoi vedere della realtà della mia dimensione, e questa notte io sono venuto a chiederti di diventare il mio seguace, e di venire con me, e di seguirmi sino alla dimensione coscienziale che schiude le porte di Nettuno. Ogni livello di coscienza è una frequenza, un pianeta, un sistema solare, un asteroide, un mare o un fiume, sulla terra o su altri sistemi. Non pensare al concetto di alieno come ti è stato presentato dalla letteratura e dalla pubblicità. Pensa a tutto ciò come all’esperienza più prossima a te comprensibile. Lo spostamento del livello di coscienza, l’apparire dei miei seguaci come manichini dagli occhi mobili e inespressivi, lo stesso aspetto di me stesso come figura tenebrosa, sono le tue categorie interpretative per decodificare ciò che difficilmente potresti altrimenti comprendere, poiché di ciò che non si ha esperienza non si ha concetto. Ora hai avuto coscienza e l’esperienza del mio mondo, o meglio, dello spostamento coscienziale e del viaggio interiore che stai facendo per percepirlo. E la tua esperienza ti rimanda a un autobus guidato e abitato da automi. Senza queste categorie, tu non vedresti nulla, o meglio, vedresti cose incomprensibili. Ora guarda con gli occhi oltre la mente!”

La scena cambiò repentinamente dinanzi allo sguardo dell’uomo. Una gola pantagruelica, schiumosa come una birra ed urlante una vibrazione diapasonica ingoiò quelle immagini, i manichini, l’essere spaventoso ed affascinante, e presto quelle scene furono sostituite da una sorta di caleidoscopio di valli desolate, blu cobalto, attraversate da vele violacee, ove colorazione indaco e vapori azzurrini si stagliavano all’orizzonte, quasi fossero un’alba.

Con un movimento inusuale rispetto alla solita sensazione di galleggiamento, l’uomo prese a staccarsi dal suolo cobalto prima lentamente, poi, conquistata una distanza dal terreno di qualche decina di metri, il volo si fece piuttosto veloce. Il sibilo nelle orecchie dichiarava l’esservi di una atmosfera, ma la sensazione dominante, in quel mondo dai colori estranei, con quei lampi ciano sullo sfondo e quel silenzio irreale, era di una assoluta e totale solitudine.

“ Questo pianeta è il mio corpo. Il mio livello di coscienza organizza i minerali in maniera tale da rendere il pianeta un unico essere vivente, di cui io sono la personalità dominante. Sono il dio della solitudine, e io catturo i cuori dei viventi rinchiudendoli nelle viscere del pianeta, aggiungendo i loro battiti al mio.”

L’uomo sentì distintamente la voce di quell’essere alla sua destra ma, quando si volse, non vide altro che un picco di granito vivo, o di materiale simile, ergersi all’improvviso dal terreno, quasi volesse lambirlo e catturarlo, le lastre affilate dome ingranaggi pronti a ghermirlo e masticarlo.

Lo spavento conseguente a quell’inaspettata mutazione del paesaggio interruppe il sonno di Enrico. Era madido di sudore, e puzzava come un cane bagnato.

“ Odoro di paura! “ disse a se stesso Enrico, mentre un qualche rumore familiare ed usuale si faceva strada nella nebbia del risveglio e delle emozioni.

Un bussare sommesso, quasi accennato, fece accelerare le già abbondanti palpitazioni al reduce da quella sorta di incubo a mezzo tra il metafisico e l’astrofisico.

Una seconda, leggera serie di colpi contro l’uscio lo tirò giù dal letto. Sua moglie non si era svegliata, stranamente. Placida, continuava a dormire con un leggero sbuffo delle labbra. Meglio così.

Enrico si avvicinò alla porta, guardando con cautela dallo spioncino. Fuori, nella luce giallastra del ballatoio, un uomo dalla barba a punta, e dall’aspetto abbastanza trasandato, stava sorridendo all’indirizzo dell’occhio magico, facendo ciao ciao con la manina.

Le domeniche con Milena

La domenica, d’estate,

sulle colline dalle vigne

ancora verdi di frutto,

dietro il boschetto d’alberi

dove una carcassa di Dyane

era divenuta casa di vespe,

pigri nell’afa agostana,

attenti a non pungere

per non esser disturbati,

stavamo nudi tra macchina e lamiera

a fianco d’un viottolo solcato

da passi ormai spenti, coperti

dalla terra come quello dall’erba,

una tenda tarlata di lamiera

come cortina ad occhi indiscreti.

Le tue gambe sulle mie spalle,

corse lente e veloci

tra grida trattenute

l’un l’altro coi palmi sulle labbra,

piacere che finiva in risata.

Eravamo pic nic per gli insetti,

passeggiata fuori porta

per famiglie di formiche.

Tornavamo a casa con vestiti

foderati dentro di fili d’erba,

qualche insetto, stranito

per l’insolito luogo capitato

ed intrepido nel decidere all’istante

la certa direzione dove dirigersi.

Passavamo domeniche spogliate,

il sole di giugno e settembre più gentile,

l’ottobre già coperto dai vestiti

con rari turisti chitinosi a visitarci.

Le domeniche, nelle altre stagioni,

erano finestrini appannati, o calati,

lungo la strada dimenticata dai passi,

sulla macchina giovane gemella

del catorcio lasciato alle intemperie.

Domeniche estive di sole e labbra,

il caldo sempre umido tra le tue gambe

come fonte in cui intingere

il saluto per il l’introibo

devoto della nostra cerimonia.

E quando le nostre bocche han pronunciato

Un vicendevole, rabbioso

“ite, missa est!” nessun segno di pace

è stato scambiato, per anni.

Da quel momento, le mie settimane,

per molti mesi senza sole e finestrini,

hanno avuto due lunedì

incatenati ad un sabato

che sapeva di fumo e di birra.

Alessandria, Agosto 2020

Estratti dalla silloge “Poemi arcontici”

Introibo

Parola pensante che si vuole dare come spigolo d’unione tra riflessione e esperienza umorale, scavata phantasia bruniana ove gli abitatori che agitano i profondi contrasti delle nostre esistenze hanno sopravanzato ogni singola vita essendone fonte archetipica, e cercano nel liquame disceso dai Prototipi arcontici della nostra malattia esiziale -l’essere virus a noi stessi e al mondo- i riflessi aurei dell’elegante vastità, profondità ed estensione che compete ad ogni singola vibrazione dell’universo.

I nostri mitici padri plasmatori, i Legislatori, gli Arconti di cieli intabarrati di codici e norme, hanno contrabbandato l’essenza interrelata diadica, la Vacuità, in Kenoma, vuoto e decompressione, e dell’horror vacui hanno riempito le nostre fucine, sino a condurci al limite della nostra autodistruzione. La noosfera che si sta evolvendo è acefala per quanto attiene la sua profondità, e desomatizzata per malintesa tassonomia ontologica. Siamo dinanzi ad un dirupo, entro cui, nel fondo, DNA e batteri stanno rimescolandosi, in attesa della fiamma termonucleare, finalizzando i secoli a venire ad un’altra estenuante estinzione.

Trasciniamo la coscienza numinosa dinanzi a noi,rendiamoci nuovamente pieni di stupore per la vibrazione che sottende l’esperienza del bello, del grandioso, dell’estatico! Bruciamo i femori e i teschi dei nostri malevoli, falsi, famelici plasmatori, demiurghi del vuoto.

Corriamo su gambe a forma

di falce di luna,

e distilliamo noi stessi

per divenire soma,

ahoma,

kikeon, la luce

riflessa del sole

avvolta nell’ombra,

come abbraccio

che ogni sogno contiene.

Supporti organici per il profitto

0

Ancora una volta,

ancora,

di nuovo,

alla fine non sarà più possibile

ripetere questo Kyrie,

sarà impossibile

come morire due volte

o solo un po’,

parzialmente morto, suona strano,

anche se l’esistenza che conduciamo

come supporti organici per il profitto,

come transazioni plasmate

nel ciclo del carbonio da qualche NulloPadre

che ha stabilito il prevalere della plusvalenza

sul diritto al respiro, e al vento,

e alle profonde grida delle stelle

(Signore e Signori, Willkommen

Welcome Bienvenidos Bienvenu

alla Grande Crapula Finale,

alla Grande Parata dell’Irripetibile

Grande Conflagrazione, Peto

Amplificato e Muggito Labirintico

del Toro di Falaride in cui tutti,

saggi, insipienti, debitori

e creditori siam cacciati dentro appena nati,

come sabbia e acqua e calce

nella Grande Betoniera degli Appaltatori

di questo angolo di Cosmo,

Reggenti Voraci del themenos

del Nulla ad una proporzione percentile

instillata, goccia a goccia,

nel cuore fremente d’eternità

( ma suvvia, son ubbie, ogni uomo

è già contento d’aver qualcosa su cui calcare

il pollice opponibile, e poi

a cosa servono i gradi inferiori

ontologici o sociali, se non a trovare

un poco di decompressione

al pensiero straniante

di questo Global Redshift

verso cui ogni nostro orgasmo

collassa in un striminzito

fiotto autofagico

-ma allora non siamo l’apice del Tutto? –

poiché se è vero

che tutti noi un poco

la morte la s’imbianca di cipria,

e con parrucche e ombretto

la si maschera fingendo

che costole e tibie

non dian così fastidio quando

ci si cerca d’accoppiare

nella quotidianità dei giorni

regalati ai padroni del nostro corpo,

della nostra mente,

della nostra anima,

(dopo i Prototipi inversi, primi

devastatori della Vastità, i coriferi

del timore e del bisogno, reggenti,

sacerdoti, banchieri, lamie

del libero mercato nell’ultimo

squarcio dell’Antropocene)

-ma di che cosa si parla, di vita?

d’eternità, di bellezza, d’amore?

Suvvia, ogni esistente

è soggetto a valutazione,

e la normativa vigente nei vari stati

soppesa il valore della tua esistenza

col solidum immateriale

quando otto ore per il profitto, un terzo

della vita inchiodata alla croce

d’un tabulato dove il tuo nome

è segnato nel Libro dei Viventi Contribuenti,

e per questo Nuovo Battesimo

l’intera esistenza è soppesata/valutata/

comprata/venduta/mascherata/sedotta

o con la fede

o con l’immortalità posposta

del seme che continua

nelle gonadi dei successori

( posponi il piacere posponi l’appagamento

sacrificati per il futuro dei tuoi figli

e loro per i figli che verranno

– i poveri scemi faranno altrettanto,

siam sicuri, sussurrano i Prototipi

al sonno senza sogno dei loro reggenti-

lo sguardo miope del pedone attonito

che cerca di fermare l’autobus impazzito

con la mano, azzebrato

sulle strisce pedonali)

ed anche coi mitologemi confezionati

per i social o per i salotti culturali,

e i due terzi del tempo e del fiato

che ci rimane è riposo da mulo,

o chiacchiericcio da fila alle poste,

o è il ronzio di una mosca

nell’afa agostana, o il pane

– ti avevano detto di cercare

quello supersostanziale, nevvero?

E come? Torcendo il collo al suono

di litanie e lamentele?

Neppure qualche secondo al giorno per ricordarsi

d’esistere, figuriamoci d’essere-

E infatti persino la comune pagnotta

diventa in questo tempo di mercimonio,

in questo spazio di cambiavalute

PERMUTO LE COSE IN TEMPO

SOTTRATTO, dicevam del pane che

diviene raffermo nella madia

su cui la Banca o il WTO

ha spalmato il suo sguardo,

e il sordo ascoltare di locuste

dentro un concerto tra stoppie

diviene TERTIUM NON DATUR

o sopravvivi e obbedisci, o muori

ma per dura lex naturae,

che c’entra il profitto?

Tempo zero spazio zero

punto zero di non ritorno,

siamo gregge organico

unica funzione il profitto

sibi praemium tamquam virtus,

senza natura, a perdifiato

tra dati e tabelle,

e alla malora anche il senso delle cose!

(……………………………….)

NulloPadre

Foto

smacchiate,

tarlate,

visi

indistinti

dietro

vetri

caliginosi,

nomi

accatastati

(quale dramma ha segnato l’immagine felice che un dio avrebbe dovuto avere della sua creazione, rendendolo sorpreso e divertito spettatore della vita plasmata da dita dal soffio avaro?)

come gusci di trilobiti

come api intrappolate

nell’ambra, come brani

di pergamena tra cocci,

le nostre vite,

i nostri sospiri

(nessuna consolazione nel gran party che s’appresta per i vincitori della corsa, dell’agone, anche se vi fosse…chi vorrebbe esser ombra d’una luce tanto indifferente?)

Attendersi qualcosa di diverso

dallo strascicare d’un passo

dietro nuvole lontane,

e la gretta consunzione

di splendide vite,

l’aquila, e il cervo, e l’acero

per portare il secolo ad esser brace

della tua favilla

si, era lecito.

(penoso pensarsi senza un dio, ancor più doloroso sospettare l’indifferenza d’un cuore inteso all’ozio)

O forse, forse,

e quasi lo spero,

tu sei ogni cosa che appare

e scompare, il chicco

di grano che geme

la nascita della pianta

e la vena che sparge

la vita dentro i corpi.

Si, forse noi siam questo,

dei raminghi nella bufera,

passi di danza trascinati

lungo crinali nella nebbia,

dispersi migratori

d’uno stormo splendente

nella luce della sera

( e Tu, NulloPadre, figlio e fratello d’ogni respiro, respiro tu stesso, un Noi divenuto Loro, estraneo, assetato condursi tra le sabbie del deserto).

Camminare

Camminare

lungo binari

di tratte

sfasciate

da viaggi

ormai sospesi,

leggere dopo anni

lettere ad un destinatario

che non sei più tu,

come il mittente, del resto,

entrambi

col cuore distante.

Rattoppare silenzi

in incontri casuali

tra vite che casuali

tra loro non si pensavano,

come la feccia del sorso

che strozza il bicchiere di commiato

in una smorfia che pare far beffa

alla serata appena trascorsa.

Chimica dell’amore

La battigia sciabordava d’una schiuma rossastra, e il rumore lontano degli impianti industriali, che circondavano quel lembo di spiaggia, sembrava quasi una musica d’organo alle loro orecchie. Dopo mesi di lavoro continuo, senza sosta, sei, a volte sette giorni su sette, entrambi per Deliveroo, centesimo dopo centesimo, euro dopo euro, lui era riuscito a mettere da parte un gruzzoletto, striminzito, giusto il necessario per una pizza, ma non portata da loro di corsa a stronzi al quinto piano senza ascensore, e due biglietti del treno. Per il suo compleanno, era riuscito a farle una sorpresa. Portarla al mare. Anche se fuori stagione, e fuori mano, c’era sempre qualcuno a gironzolare, e loro non volevano essere disturbati. Lei sognava di fare l’amore sulla spiaggia, e lui, porcoboia, alla fine ci era riuscito a trovare un posto giusto. Nessuno per miglia. Erano entrati dalla recinzione sfondata di uno strano magazzino abbandonato, saltellato tra le pozze di catrame per non sporcarsi sandali e piedi, ed ora erano lì, finalmente soli, nudi sotto il sole settembrino, a darci dentro come pochi. Facevano un gran polverone su quella sabbia fine come talco, che quasi gli aveva imbiancato i capelli. Stendendo qualche sacco vuoto di cartone sotto la schiena, a mo’ di coperta, la situazione era un poco migliorata.

Lei era al terzo, tossicchiante orgasmo, ed era felice. Lui, raggiante, trattenne ancora un istante il fiotto. Col dito fece cenno alla ragazza di leggere la scritta su uno dei tanti cartoni che aveva ammucchiato per stare più comodi su quella spiaggia dai flutti a tratti violacei.

Lei lesse, e il suo sorriso crollò ad un angolo sghembo, quasi impossibile. Prese a sgranare gli occhi. Lui, con gli occhi chiusi, non si accorse di nulla, e venne, sussurrando una frase che aveva pensato proprio leggendo quella scritta color cobalto su fondo grigio cadavere.

“ Ti amerò per l’eternit…à”.

Da Alia et Cetera ” Flushing n° 2

Drastiche riduzioni delle contingenze

favoriscono i depositi alluvionali

nel nostro flusso interiore, come sedimenti

urici e biliari, così si crean le convinzioni

nella mente umana, poi prepariamo

il contorno, la causa e l’effetto ma sì,

ammettiamolo, siam depositi

di tempi di magra, quando gli dei,

non sapendo che fare, liberano

gatti e serpenti tra le cavie

per vedere come corre quello grasso

pungolato dall’unghia del predatore,

e come il più tontolone dondola

sulla coda dinanzi al serpente,

quasi che vi fosse da sperare

l’improvvisa amicizia. Poteva andarci peggio

a ben considerare, abbiamo mani

e piedi, e possiamo anche volare

mettendoci sopra a taniche con ali,

per cui cosa chiedere di meglio

al Creativo, che un giorno

sbadigliando trasse dalla noia bitorzoluta

che gli tormentava il capo

l’idea d’un amore eterno

e incondizionato, ma a certe condizioni,

tipo regole comandamenti e RISCHIATUTTO

qui ci si gioca l’eterno dolore

o l’eterna bambagia.

Da “Alia et cetera-Flushing n° 2

“Ogni piacere ha il suo momento culminante quando sta per finire.”

diceva D’Annunzio, per questo

lo si dilaziona sino a nasconderlo

dietro i cieli, o interrandolo nei caveau.

Ltd. Ltd. Ltd, anche per l’ideatore

di tutta questa fiera, o sbaglio?

Nel ventre del toro di Falaride

si mesce oro e debito

versando nella bocca dei popoli

la sua diluizione famelica

con tasso d’interesse

congruo per determinare

diligente consegna di se stessi.

Tratto da: Breviario di poche parole

Nihil sub sole novum

Questa pioggia puzza

già di scarichi

e sgasate verso l’ufficio,

la fabbrica, il parco,

il mercato biologico,

ove comprare cetrioli e rape

dallo sguardo grezzo e costoso.

Questa pioggia puzza,

e cade, pesante e cinerea,

e non pulisce, non rallegra,

sembra lacrima lontana

di morti già dispersi, scomparsi,

arsi, e spenti come lumini

da dita intente a resettare

la memoria del computer.

Ci eravamo asserragliati

dietro teleschermi sempre spalancati

su morgue e su conteggi,

l’odore del disinfettante

alternato al profumo

affacciato a finestre, in una primavera

che non ci ricordavamo.

Ci eravamo detti

che nulla sarebbe stato

come prima, e che tutto

sarebbe stato diverso, ora

che avevamo tempo per pensare,

confinati dietro maschere e moduli.

Avremmo chiesto ai potenti,

a lorsignori, di render conto

di dove avevano messo i nostri anni

e le nostre forze, ora

che di anni e di forze uno,

men che moscerino, sapeva rubarti

in un istante, in un respiro,

la speranza e la memoria.

Tutto sarebbe stato per noi, persino

l’algida vecchiaia, ora

che di vecchiaia quel coso

faceva scempio. Invece,

beh, la pioggia non piove pulita,

e, come prima, s’aggoccia attorno

ad uno sporco che s’incrosta

sopra i muri e le mucose.

Ora, ora siam di nuovo

quel che siamo sempre stati

e corriamo , liberi, a serrarci

in scatole di gomma e di metallo,

ci scagliamo verso orari

che non cambiano,

ma che ci cambiano

lentamente, nell’animo,

e nelle rughe, nelle attese

di qualcosa che non accade,

sino a renderci

impalpabili come polvere,

e greve, stanca anche al vento,

e che nessuna mascherina

saprà mai fermare, o filtrare.

Alessandria, Lungofiume, 15 Maggio 2020

Brano tratto da “Flusso-tredici rimbalzi sull’acqua”

2

E’ come andare nel parco

a raccogliere foglie morte e cicche

e siringhe con lo stantuffo colloso di seme

sprimacciato per marchette frettolose e barcollanti

la caccia all’uomo reso ombra senz’ombra

dai cieli ricoperti di grida di praeficae stonate

e virili eunuchi castrati – ma quante Dafne inseguite

dall’umanità scadente in fregole rimosse

decolorate in macchie sui vetri nessuna

trasparenza grazie incensi e fumi di carcasse

sacrificate per espiare l’incontinenza della vergogna-

è come andare nel parco e raccogliere

i barboni surgelati nella notte

con i cartoni di vino masticati dalle gazze

è come andare nel parco la caccia

all’uomo disossato e porzionato

ma l’incuria delle lapidi consegna il futuro

ad un utilizzo a piè di pagina

della nostra memoria conservata tra residui fecali

di triceratopi estinti

su mascelle mutanti il primo ciclo

di raggi gamma stanno forzando l’evoluzione

come clienti impazienti l’entrata

di Centri Commerciali i fedeli spaventati

dalle fiamme del rogo infernale i portoni

di chiese sigillate nell’attesa di concili

risolutori le aporie cinque prove aristoteliche

agli ortodossi e agli evangelici poco importa

gli arrapati gli sfinteri dei passanti frettolosi

che lascian biglietti di protesta sulle panchine

ove l’abuso si perde in polemiche inascoltate

ogni cosa accade nel gran circo del mondo

aspettando che i domatori tornino dall’ultima crapula

mi sembra in Rwanda gran fornitura

di carne gonfia e pure la Siria

non si è scherzato in gole sgozzate

e sassi e missili e lanciafiamme comunque

si sa che appena finito di ingurgitare

poco ci manca che si scaglino subito

sulle vittime elettive a strappar dal torpore

le giugulari degli obtorto collo obbedienti

gli ultimi uomini vermicolanti

si agitano quando gli alzi la pietra

che schiaccia i loro respiri

e da tutte le parti scappano

insetto e blatta indecisi aa chi dar la precedenza

l’evoluzione a scatti come una webcam

dal cattivo wifi non ce la siam tolta

dal groppone come la cauda

intemerate le cimici s’innalzano in volo

schiantandosi contro i guanti

dei domatori dall’appetito peggio

d’un Padreterno che tutto s’ingolla

Friedrich diceva dell’ultimo, e piccolo

ancor più piccolo della sua ombra

evanescente noi cerchiamo come il pazzo

nel supermercato con un led l’Uomo

prego secondo piano a destra il reparto

oggettistica per la casa è più interessante

– forse qualche software è dulcis et dedecus

programmare con i filacci genetici

per impiantare un salto quantico all’interno

del Motore Immobile dell’homo sapiens

ché l’estinzione di massa sta preparando

come una festa da finis vitae pestis-

reparto fine serie l’homo tecnologicus se l’è affittato

e offerte scaglionate turbina il maelstrom

di piogge acide si deduce dal Pil generale

che si continua così sino all’estinzione

degli ominidi anellidii basta rimettere

il sasso con forza e saltarci sopra

cantando al cielo la peana per i girovaghi

che bighellonano nelle stanze del Palazzo.

6

Grande è il grido strappato agli astri

e lunghi i capelli intessuti di sogno

con cui dita incantatrici han cucito

il nostro sudario di deità moribonde

con fossi scavate con creste iliache titaniche

tendini lacci di corse impazzite

dal caldo affocato il giorno cresce e cala

e sopporta l’incertezza del meriggio e della notte

ove ogni volo è fremito oscuro

di archi tesi verso l’invisibile orbe orbite

che camminano sopra vortici scricchiolanti

camminiamo sulle ossa dei nostri padri

camminiamo sulle ossa che furono noi

come esche caliamo infilzati negli ami

i nostri occhi scandaglio del profondo

camminiamo e danziamo sulle macerie

inevitabili come lo spegnersi delle stelle

quando l’ultimo volo dell’ultima farfalla

sfarinerà la desolazione di pietraie senza fiori

per questo soffio tra le dita

e tendo le palpebre come tessuto al vento

affinché gli antichi Djed vivano

sulle ali di libellule e farfalle

ed il polline degli dei disperdano

sin dentro la caverna nella matrice più avara

e la lingua degli uomini ricolmi di nettare

e gli antichi sarcofagi spalanchino la ricchezza

che un tempo garriva tra le dune del mondo

appena risvegliato dall’oblio ciclico

Ruach Anemon Prana Chi

colui che spinge se stesso sulle aali

dei canti che intagliarono la roccia

glorifica la fonte da cui ogni fiore proviene

chi spegne se stesso come dio

si scaglia nell’imo delle Latomie

dello spirito e della carne

che ogni nato insegua l’ombra della barca

che viaggia nelle Terre Occidentali

che ogni nato segua il passo di Gilgamesh

e tenti la scalata al cielo e fallisca e cada

come è destino che accada alla pietra scagliata

e divenga asteroide che scompagina

il consorzio delle costellazioni di cartone

ficcate sui cieli di fuliggine

dai seguaci delle lingue invertite

Htaruggiz! Htaruggiz!

7

Il tramonto se ne sta tra le gambe come un aborto

deciso a vivere una vita dignitosa un poco sparendo

un poco ricomparendo così viene e va

il secolo tra i pereunt homines et animalia

cavalchiamo lo stesso soffio ruach e nepesh

due nari dello stesso naso dal profilo spezzato

una sfinge l’esistenza che indaga se stessa

ci si spia voltandosi all’indietro per osservare

l’ombra fuggevole della nostra ombra sparire

tra le lamine di palazzi decomposti dal tempo

ogni cosa si macera fuorché il sogno

che come respiro gonfia i polmoni dei viventi

e tra le pieghe degli attimi

rende albero l’albero al di là del nome

denso di profumo e forma e musica di fronde

e luce la luce e tra le cose

l’ombra della luce getta per destare dal sonno

dei sensi ed il sonno attraversare

ed ogni cielo bucare le spade spezzate nella lotta

con l’universo che vacilla remi per il guado

gran cosa è comandare ai venti e tendere

il proprio canto come una vela

essere un Caronte per se stessi

portarsi al guado ove la corsa dei millenni

è il gioco della sabbia dei mandala scagliata

ogni cosa giunge alla perfezione

se stessa scavalca ritornando nell’ombra

e lì carne e fuoco e respiro riprendendo

le braci degli occhi memori di stelle

dissepolte dagli abissi degli oceani titanici

ove ogni istante rimane senza perdersi

neppure il fremito di un’ala neppure

l’orizzonte che si dipana come lacrima

nell’ultimo sguardo del falco

prima di schiantare col cuore ghiacciato a terra.

8

L’archeologia del pessum dare trae femori spezzati

da sotto le ganasce di gabellieri sepolti dalla cenere

nei milioni di big bang finali

che da cosmo a cosmo si inseguono

indebitandosi con dasein defraudati dalla risposta

in fondo si vive a cottimo anche come quasar

e del debito che sentiamo verso chi o cosa

forse verso noi stessi che ci sentiam senza casa

ne facciamo legge arrotolata a fune

e con questa c’impicchiamo da sempre anche quando

eravamo protoplasma rovente già

si giocava al piccolo banchiere

ed al mercante di stelle ed i banconi

si rompevano sparpagliando galassie

le costellazioni tetragone già in opposizione

plutocratica bloccavano lo sviluppo simmetrico

in undicesima casa Giove

s’inciampava ad ogni quasaar

esploso nelle bidonville del redshift

un demanio

persino tra la polvere stellare

i banchieri cosmici

in prospettive di politica economica trattavano

( e di riflesso per conseguenza sulla terra

i preti dei Famelici affamatori il popolo trattavano

come animali da sacrificio, legati per le nari

al palo del lavoro e della frusta)

per rubra ad nihil se l’idea dell’espansione

ha qualche sintomo di saggezza

come lo strisciare del lombrico sotto la terra

e il rodere dell’involucro del bruco

nell’attesa d’involarsi farfalla

ma il qi generale 80-100 medio non lo ritiene

da ciò si desume che Biante

tutto sommato a ben vedere

sarà antipatico impopolare

ma un poco teneva ragione.