Torino, oggi
Una brezza sussurrava piena degli aromi della primavera, ed il primo quarto di luna, nonostante la serata fosse stata coperta per un largo tratto, riusciva finalmente ad illuminare la notte. Sulla panchina del giardinetto, un uomo vestito di scuro, con un lungo impermeabile fuori stagione, tutto spiegazzato, era ben visibile nel cerchio di luce gialla del lampione stile liberty, vicino al laghetto delle anatre ed alla fontanella di pietra.
L’uomo, una sigaretta accesa dietro l’altra, sembrava totalmente assorto dalla lettura di un libro. Scena singolare a vedersi, visto che la luminosità del lampione, pur sufficiente alla bisogna per chi avesse dovuto attraversare il parco, orientarsi o sedersi e chiacchierare con un amico, non era comunque il mezzo migliore per affrontare il corpo 11 dello stampato tradizionale. Era lì da almeno un paio d’ore, indifferente agli sguardi interrogativi dei pochi passanti, sempre più radi, ed alle profferte delle due prostitute che si spartivano la zona a monte.
L’uomo ebbe un accesso di tosse, quindi si alzò per andare alla fontanella e sciacquarsi un poco l’ugola irritata dalle continue sigarette. Mise le mani a coppa, sotto il rubinetto in bronzo che spuntava da quello che pretendeva essere un putto sorridente, e che invece gli pareva in tutto e per tutto il viso di un ebete ghignante, quindi affondò le mani in tasca, per pescare accendino e Camel.
Un passo, da dietro, fece scricchiolare la ghiaia. Era vicino, a nemmeno un metro dalla sua schiena.
Lui non si voltò né interruppe la ricerca del pacchetto di sigarette, la cui presenza era ora vagliata nella tasca interna dell’impermeabile color cuoio.
Il rumore metallico annunciò all’accanito fumatore che qualcuno, alle sue spalle, aveva fatto scattare un meccanismo, probabilmente a molla e, altrettanto probabilmente, di un coltello.
“Ehi, stronzo! Vedi di non fare l’idiota e di darmi tutto quello che hai in tasca, o ti infilzo il collo tra vertebra e vertebra in un attimo!” Una voce rauca e senza tentennamenti scandì con durezza questa frase, mentre l’aggressore fece sentire il freddo aguzzo della punta della lama premendo sino a far uscire un piccolo rivolo di sangue. Una mano d’acciaio, fredda e secca, bloccò in un istante la fronte del bevitore alla fontanella, tirandola all’indietro e ponendo il malcapitato nella impossibilità di potersi ribellare senza causare a se stesso danni gravissimi.
L’uomo dal soprabito stazzonato sembrò rimanere immobile per una decina di secondi, quindi, in maniera quasi fulminea, inaspettata per il suo aspetto piuttosto indifeso e male in arnese, spinse contemporaneamente l’avambraccio destro dell’uomo, nella cui appendice era stretta la lama, e ruotò di lato, imprimendo una rotazione parziale al corpo dell’assalitore, e mettendo fuori pericolo, almeno per qualche istante, il suo collo. Uno sbrego si era aperto sulla sua pelle, e la ferita aveva iniziato a colar abbondante sangue, ma ora vi era mezzo metro tra lui e la punta della lama.
L’uomo col soprabito prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, ed iniziò a tamponarsi la ferita, sorridendo all’indirizzo dell’assalitore, rimasto stupito dalla reazione agile ed inaspettata della vittima.
“Ci tieni alla tua anima? O meglio, a quell’accozzaglia di vagiti ed urli agonici che hanno costituito il peregrinare nei secoli della quintessenza indistruttibile che voi ilici, io dico inopinatamente, definite anima? Sai che la tua è ridotta ad uno stronzo di chiuahua? Rende proprio sgomenti vedere come una cosa preziosa, quale è il punctum solis, sia divenuto nelle tue mani un escremento buono solo per impiastrare una suola, lasciatelo dire…forse non hai bisogno dei miei soldi…hai bisogno di due sberloni ben dati che ti sveglino dal torpore tamasico…ma non so se faccio bene…alcune volte aiutare è sbagliato!”- l’uomo col soprabito sciorinò le sue affermazioni con lo stesso tono di voce con cui un negoziante legge ad alta voce gli ingredienti scritti sull’etichetta di una scatola, per informare l’eventuale acquirente della presenza, o meno, di allergeni.
“ Co…cosa? Di che cazzo parli, uomo? Credi forse di fottermi con queste stronzate? Io ti…”
“ No, tu non farai nulla né ora né domani o tra un mese. Anzi, vedi di versare la rata della polizza assicurativa della casa e del garage, che è in scadenza, o per te e quella poveraccia che ti sta assieme non ci sarà manco la possibilità di un pasto caldo e di un pezzo di tetto sopra la testa. Tieni, ti smazzo un cento. Pagaci la rata annuale, non si sa mai. Magari la sfiga vuole che un corto ti fulmini l’impianto e ti mandi a fuoco tutta la porcheria che tieni lì dentro, con il laboratorio che ci hai raffazzonato dentro e la macchina scassata che sta ancora attaccata con lo sputo, e solo perché sta ferma, danneggiando quei raccoglitori di cianfrusaglie e bidoni vecchie a quattro ruote che i tuoi coinquilini di palazzo definiscono garage…ma non ti converrebbe impegnarti a trovare un vero lavoro e lasciar perder gli assalti occasionali a sconosciuti? E ti regalo pure la mascherina che ho in tasca, è nuova, non la uso…tanto a me il covid non fa altro che provocare un po’ di raucedine, e qualche starnuto…se continui ad andare in giro senza protezioni, bello mio…ma non sai che puoi fotterti i polmoni per quattro gocce di saliva ? ”
L’assalitore aveva ascoltato quel panegirico senza fiatare, la mano col coltello ormai tenuta all’altezza delle ginocchia. Sembrava una statua di sale, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. All’uomo col pastrano quella smorfia di stupore sembrava idiota almeno quanto la faccia del putto con in bocca il rubinetto, e lo disse senza mezzi termini.
L’uomo col coltello balbettò qualcosa, poi, forse spinto dalla frustrazione o dalla piega inaspettata che avevano preso gli eventi, diede di lama all’improvviso, rompendo la distanza con un salto e tirando un fendente ed una stoccata. Questa, dritta al cuore, penetrò il pastrano ed il torace dell’anziano stazzonato, il quale, in un silenzio di tomba, crollò sulle proprie gambe, come una marionetta a cui avessero tagliato i fili.
L’aggressore, ansimando e guardandosi freneticamente attorno, si avvicinò al corpo esanime, infilando in ogni tasca le proprie mani per cercare soldi.
“Cazzo, 4400 euro in contanti, nessun bancomat, un bel po’ di sterline e dollari…e questi che sono? Che cazzo di banconote sono? Rubli? E quest’altra cartaccia? Ringitt? Malaysia? Naaaa, mi beccano subito se cerco di cambiare, e poi non valgon nulla, o quasi…lasciamo stare. E quest’altra cosa…cos’è? “ chiese a mezza voce l’assassino, mentre i suoi occhi continuavano a roteare d’attorno per spiare nel buio l’eventuale presenza di qualche tiratardi nel parco.
L’uomo si mise sotto il lampione, e porse alla sua luce, arrotolato nella sua mano, una catena di un metallo che non sapeva definire, ma che non sembrava prezioso, ed un ciondolo dall’aspetto piuttosto inusuale. Così ad occhio e croce, sotto quella luce giallastra e con l’adrenalina che pompava nelle arterie, quel coso sembrava essere un viso mostruoso, deforme, un ghigno beffardo, al di sotto del quale vi era un torace largo e due gambe corte e stortagnate; due grossi coltelli affiancavano il torace, mentre una specie di geroglifico era stampigliato sul fondo del medaglione. Sembrava piuttosto pesante, ed antico, per cui andò a finire nel fondo della tasca, assieme alle banconote e ad un anello che il vecchio aveva nel medio destro. Un rubino, o almeno così pareva, incastonato in una fascia d’oro, e circondato da una fine scritta, illeggibile alla luce giallastra del lampione.
Senza star su a pensarci, l’assalitore si infilò anche quel ciondolo in tasca, sfilando dal dito indice dell’uomo quello che sembrava un altro anello d’oro con una pietra incastonata, forse un topazio, ad una prima, frettolosa considerazione. Una mascherina chirurgica, ancora incellophanata, frusciò tra le sue mani e venne quindi dipanata, ed indossata. Era meglio coprirsi la faccia, la Polizia tendeva a fermare i passanti sprovvisti di sistemi di protezione individuale. Ed in quel periodo di quarantena, peraltro, di persone in giro ve ne erano davvero poche.
Con passo leggero, controllando ancora che nessuno stesse a spiarlo, l’uomo si dileguò nelle ombre, sparendo.
“ Ma di che cazzo mi stavi parlando, povero demente? Della mia anima che è peggio d’uno stronzo…di chiuahua? Ora la tua non c’è più, è questa l’unica verità…e poi…ma come cazzo faceva a sapere del mio laboratorio e della rata dell’assicurazione? Che faceva di mestiere, l’indovino? E non poteva prevedere anche la coltellata che gli stavo per tirare? Bah, comunque è meglio che me la fili a casa passando per gli argini…non vorrei mai che, a qualche pattuglia, venisse in mente di fermarmi a quest’ora della sera…ci voleva il lockdown e ‘sta peste per inghirbarci ancora peggio, noi, poveracci di strada…pochi passanti da spolpare e troppe divise in giro…e sempre lì a far storie, a chiederti dove vai e perché, e tu a mostrare che stai andando a comprare una medicina, e sempre lì a mostrare i documenti, come se fossimo alla frontiera…ora che ci penso, mica ce li aveva i documenti, quello sciroccato…”. L’ombra si fuse definitivamente con l’odore di fanghiglia e sporco che limacciava lungo la parte bassa degli argini, strisciando verso la salita da cui avrebbe potuto, con un poco d’impegno e di fatica, arrampicarsi per la massicciata del muro e raggiungere il retro del suo palazzo, da dove sarebbe potuto entrare senza esser visto da nessuno. Quel vecchio palazzo, con i suoi viavai di abitanti, abusivi o meno, gli sfratti, le occupazioni, le urla, le risse, le puttane sul ballatoio a dieci euro a pompino, era in stallo da quando le famiglie avevano partecipato ad una diretta giornalistica, e sciorinato chi una nefrosi del marito, chi uno sfratto ed otto figli, chi la disoccupazione dell’intero nucleo. Grazie a quella diretta televisiva, ed a diversi sit in davanti al Municipio, qualcosa si era all’inizio mosso per quella zona ormai degradata della città, e gli sfratti esecutivi erano stati bloccati, qualche fornitura riallacciata, un paio di famiglie prese in carico da associazioni di volontariato. Ma gli otto palazzi di quell’isolato erano rimasti, nel complesso, sul Libro della Morte di assessori e politici, e chi poteva sfangarla in qualche modo la sfangava, magari allacciandosi illegalmente alla rete elettrica, vendendo qualche dose al Valentino, prostituendosi o lavorando in nero.
L’androne del suo palazzo, quello sì, aveva rilanciato gli affari, con Rosina e Yvette che, dopo quel servizio di denuncia, avevano visto triplicare il loro giro, normalmente gestiti tra la camera di sgombero per gli arnesi delle pulizie, stabilmente occupato da Rosina e dal suo letto di gommapiuma, e la cantina con la porta gialla, ove Yvette viveva e si dava per pochi euro. La sua bellezza dalla carnagione scura le fruttava tra i dieci ed i quindici euro, e sì, anche in quel contesto così squallido, rabberciato, lei era molto brava, tutti lo dicevano. Solo, quel viso senza sorriso e quella rabbia soffocata e percepita a pelle, anche dalle persone meno empatiche e più frettolose, faceva sì che i clienti, spesso, preferissero Rosina, sguaiata, trascurata, sciatta, e con una dentatura discutibile, a lei, algida e lontana. Anche per loro, comunque, lavorare era diventato difficile, in quel mondo improvvisamente medicalizzato. Pochi clienti, lunghe code alla caritas, qualche sveltina more canino, con mascherine e gel sulle mani…magari senza profilattico, ma il martellamento dei contagi era stato così pressante che, almeno in quello stabile, era stato tacitamente concordato tra le due signorine lì esercitanti l’adozione delle linee guida ufficiali.
Una cosa era chiara, in effetti. Tra i poveracci del quartiere, il covid aveva già iniziato a riscuotere pegno, e i male in arnese, i vecchi con la pensionaccia sociale, i fricchettoni residuati degli anni ‘70, beh…erano già entrati nelle statistiche della sanità piemontese, chi scaldando ancora un letto in qualche terapia intensiva, chi, invece, volteggiando come cenere e fumo…che periodo folle ed inaspettato era quello…la morte cavalcava starnuti e respiri, e non si poteva neppure fare una buona bevuta tra amici senza correre il rischio di lasciarci le piume senza tanti complimenti.
Quella sera, comunque, il portone sembrava sgombro, e il neo omicida, ancora gonfio d’adrenalina, avendo trovato il retro del palazzo presidiato dalla combriccola dei soliti ubriachi, seduti sul proprio piscio e su logori tappetini di macchine, non ebbe difficoltà ad entrare, non visto, nell’androne, e salire a passi rapidi su per le scale, sino al terzo piano, dove al 9, dietro la porta di tamburato ammaccato e scheggiato, la sua compagna stava sentendo ad alto volume una puntata di un talk show. La voce della conduttrice, roca e quasi baritonale, rimbombava sin da fuori il buco della toppa, tanto alta Elisa, questo era il nome della sua donna, era abituata ormai a sentire la tv.
Spalancò la porta, e la voce della De Filippi lo accolse come un mastino sbucato dal buio, e con una gran voglia di molare i propri denti sulle tibie del primo malcapitato.
– Elisa, son tornato! Abbassa, cazzo, che stai assordando anche i vicini! Ti sta sentendo persino l’haitiana che fa i pompini in cantina, e che diamine!-
– Vaffanculo, te e quella troia. Le avrai smazzato i soldi della bolletta, ti conosco, porco d’un porco! Boja faus, sono una torinese purosangue e mi tocca vivere con negri ed albanesi ubriachi, e con un terrone incapace di portare un piatto di minestra a casa!- urlò di rimando Elisa, senza abbassare di una tacca il volume della tv.
L’uomo entrò di corsa nella stanza, irritato da quel comportamento sguaiato e stupido della sua compagna. Prendersela così tanto per un servizietto pagato pochi euro, e tanti mesi fa, e per di più dopo mesi che lei, di seguito, rancorosamente, gli aveva dato sempre buca, ora per un mal di testa, ora per un litigio, ora, infine, perché non riusciva a trovare un lavoro stabile, e doveva accontentarsi di qualche riparazione raffazzonata in quel pezzo di garage che aveva ereditato, unico suo bene e possedimento, dallo zio, assieme ad una vetusta, marcescente seicento Fiat, in promessa di vendita per qualche centinaio di euro da parte di un collezionista. Beh, lo sapeva il motivo. Erano le benzodiazepine e il vinaccio in cartone. Assieme, la rendevano quel coso istupidito e raggomitolato tra le pieghe di lardo ed il maglione di paille, e con una coperta a coprire quei piedi paonazzi, scheletrici, e quell’addome ormai gonfio per il troppo bere. Erano le benzodiazepine, ed anche quella fottuta depressione che si era scavata una ruga inequivocabile sotto le labbra un tempo sorridenti, persino felici. Era un bel viso, dieci anni fa, quando entrambi avevano un lavoro, erano più giovani, e potevano permettersi persino il lusso di qualche sogno banale e borghese, come una vacanza all’estero, o un mutuo per la casa. Poi, la crisi, i licenziamenti, i lavori in cooperative e gli LSU, i progetti lavorativi a quattrocento euro al mese, mentre l’affitto te ne porta via 500, e il fondo della bottiglia visto sempre più in anticipo, prima ogni due giorni, poi la sera, quindi, qualche volte, ancor prima che le ombre iniziassero ad inscurire il cielo pedemontano.
L’odore stantio del cavolo e delle patatine fritte abitava ormai come un coinquilino quelle mura visitate giorno e notte dalle starlette della tv, e più loro apparivano in forma e splendenti, più i capelli di Elisa divenivano unti e disordinati. La vita era una merda, e questo Enrico lo aveva sempre saputo, ma in quel momento, con il coltello in tasca ancora sporco di sangue, e l’adrenalina scemata all’improvviso, gli appariva un mostro maligno, un qualcosa che ti ghermisce, all’improvviso, da una beata non esistenza, e ti scaglia, non sai come, non sai perché, dentro un Luna Park idiota, assurdo, senza senso, ove pochi si divertono, mentre tu sei lì, a scivolare e cercare di rimanere con un piede solo, e la caviglia dolente, sulla rotaia sospesa sopra un abisso, dove sei costretto ad esibirti in equilibrismi per chissà quale sadico motivo, mentre il pubblico tifa per un tuo schianto, e ti bersaglia di insulti e pomodori.
Enrico si buttò sul divano sgangherato, e prese il telecomando, abbassando il volume ad un livello accettabile. Quindi, ricacciando quasi con orrore quell’idea assurda, improvvisa, nata tra le dita ed i pensieri, quella di afferrare velocemente la lama insanguinata, e porre fine alla vita di entrambi, con un gesto risoluto, un fendente alla gola, cercò le mani di lei, le strinse, guardando in quegli occhi arrossati dalle ore di tv e dall’alcool.
Represse una lacrima. Elisa, guardandolo infastidita, rimase in silenzio, aspettando che qualcosa accadesse. Era abituata agli spot che interrompevano le trasmissioni, e quindi se ne stava lì, in attesa che qualcuno, o qualcosa, facesse la sua comparsa.
– Ho fatto un affare. Un business. Posso pagare le bollette, ed anche la rata dell’assicurazione. Meno male che me lo hanno ricordato. E comprare qualcosa per noi. Ah, ti ho anche preso un piccolo regalo. Un ciondolo con la collanina. Credo proprio che sia un monile di vero argento, non soltanto semplicemente placcato come le baracche da due soldi. E’…mmmmh…etnico….viene…bah, è stato uno zingaro a darmela, in cambio di un vecchio favore.- E, detto questo, le passo tra le mani quel ciondolo rinvenuto nel pastrano del vecchio.
Una faccia quasi deforme, ghignante, brillava debolmente alla luce del neon dietro il divano, nella mano sinistra di Elisa.
– Ma chi è ‘sto mostro?! E’ più brutto di tuo padre, e ha pure la lingua fuori, proprio come te quando guardi la Yvette…regalala alla tua troia, va’, che questo schifo non lo voglio…anzi, cambialo al Balùn, che ci possiamo rimediare mezza stecca di sigarette, o un phon nuovo, che ho deciso di lavarmi i capelli…!- Elisa gettò il ciondolo addosso ad Enrico, tornata scorbutica.
– Ti ho detto che ho fatto un affare. Un ottimo affare. Ora scendo dal cinese e ci compriamo del pollo, e pure gli involtini e il riso alla cantonese, e la birra..e poi passo dal market di Amin per una bottiglia di rhum decente…che ne dici?-
Elisa si illuminò all’improvviso. Non ci poteva credere, ma era proprio vero. Il suo uomo stava mostrando un rotolo di banconote, un gran bel rotolo. Si poteva vivere alla grande, per un po’. Prese dalle sue mani il ciondolo, e se lo mise al collo.
– Certo che è più brutto di quel porco di tuo padre, quel gran maiale…e tu hai preso da lui, si sa…ma grazie comunque per il pensiero. Cosa rappresenta?-
– Quel gran porco di mio padre, ovviamente ahahaha…che poi non ti spiaceva così tanto farti palpare da lui, ahaha…siete tutte uguali, voi donne…fate tanto le schizzinose, e poi, se non vi si considera…-
Un bussare ritmico, quasi allegro, sul tamburato della porta, interruppe le prime schermaglie di un petting esteticamente discutibile. Erano due ravatti male in arnese, e le tette di Elisa, tirate fuori dal pigiama slabbrato, ricordavano più una lonza di suino buttata sullo strofinaccio da bottega di un macellaio, che i seni delle starlette televisive, tutte gonfie e sode. Enrico, del resto, era secco e con una chierica piazzata nel bel mezzo di capelli ispidi come una spazzola, ed una pancia da bevitore di birra gonfiava la camicia dando l’idea di una refurtiva nascosta da un taccheggiatore maldestro.
Il bussare divenne quasi un assolo ritmico, degno di Tullio De Piscopo. Quasi piacevole a sentirsi. Ma chi cazzo poteva essere a rompere i coglioni in quella maniera, e proprio in quel momento, dopo mesi di rancorosi dinieghi da parte della sua compagna? Di certo non era la Polizia…il loro era un bussare imperioso, accompagnato da frasi urlate, e da gran calcioni sulla porta. Enrico si scagliò verso l’entrata, urlando con le labbra quasi incollate al tamburato di smettere.
Da dietro, qualcuno ritmava ora i toc toc quasi ad imitare la Primavera di Vivaldi. Una voce, da dietro il tamburato, accompagnava la melodia con un lieto, trillante la lalà lalalalalaaaaà.
Enrico spalancò la porta, il sangue al cervello e la mano in tasca, sulla lama. Lo chiamavano Paglia non per nulla, tra gli amici. Faceva subito fumo alla prima scintilla, e non sapeva frenarsi quasi mai. Quasi. Con Elisa, chissà perché, era stato diverso. Sempre.
Gli occhi di Enrico videro il primo piano di quattro nocche ossute, e poi un’esplosione di colori. Quindi, il buio ed il freddo del pavimento.
– Spiacente di turbare il vostro ritrovato idillio, ma sono venuto a riprendermi qualcosa che mi appartiene. –